“Spesso mi sono sentito un pezzo di carta appoggiato sulla scrivania di un ufficio. Gianni era un bravo magistrato ma anche le sue doti umane erano grandi: io vorrei chiedere a chi gestisce questi fogli di carta di scendere ogni tanto dal piedistallo e avvicinarsi di più alla realtà e all’emotività dei ragazzi”. Risuonano dirompenti le parole di Antonio Forte, tra le colonne del teatro Savoia e dentro gli animi dei presenti, pronunciate senza mezzi termini e con disarmante sincerità di fronte ad una platea piena di magistrati e di persone che operano nelle maglie della giustizia.
Antonio, 20 anni, ha alle spalle una storia di affido finita bene ed è stato premiato quale esempio di rivalsa sulle avversità della vita con una borsa di studio dall’associazione Giovanni Falcione, il magistrato campobassano scomparso troppo presto quattro anni fa. Con lui sul palco la psicologa della comunità Il Piccolo Principe Elvira Battista e l’educatore che per Antonio è amico, padre, fratello e anche di più, Giuseppe Scarlino.
“Sono in casa famiglia da quando avevo 7 anni – racconta commosso il ragazzo – ho lottato a lungo per me e per mia sorella ma mai mi sono sentito solo; oggi sono felice di poter raccontare cose non semplici da spiegare, ma che si dovrebbero conoscere di più. Vedete, quando si parla di comunità con le persone si entra sempre in un vortice di idee e di concetti che rendono tutto più complesso da capire. Esiste una resistenza di stampo emotivo nei nostri confronti, una distanza che si crea forse solo per motivi inconsci, ma si può affrontare, si possono rompere le distanze. E io non mi sento diverso da altri ragazzi che vivono in famiglie normali”.
La comunità è una casa qualunque, con la differenza che oltre ad aprire le porte ai bambini e ai ragazzi accoglie anche le famiglie, quelle dei minori e quelle che vogliono aiutarli. Vive delle rette in base a decreto del tribunale ma anche di tanta solidarietà, la generosità di tante persone che, come ha detto dal palco la Battista, “nel silenzio hanno sempre dato, senza chiedere nulla delle storie dei ragazzi, hanno dato e basta”. Nobile e vera generosità.
“Accogliere è difficilissimo – ha spiegato la psicologa – Passa prima dall’accoglienza di noi stessi e della nostra personale storia e poi dal lavoro costante e certosino sulle storie dei ragazzi. Ci vuole tanta forza e la nostra forza è la formazione permanente, corredata dal confronto continuo. In comunità crescono anche gli educatori: in contatto coi bambini devono lavorare su se stessi e non è facile. Per questo la scorsa estate abbiamo realizzato la prima scuola di comunità in Molise. I ragazzi quando arrivano sono tutti arrabbiati perché non hanno più fiducia in noi adulti e recuperare questa fiducia significa darne a loro, aiutarli a crescere nella consapevolezza che ognuno di noi può farcela“.
Forte il richiamo alle istituzioni di cui, precisa la psicologa, le comunità hanno tanto bisogno per condividere e risolvere i problemi anche attraverso progetti condivisi: perché l’affido deve unire, non dividere. E poi lo scoglio, a volte il dramma, del dopo comunità: molti alla maggiore età non possono tornare in famiglia e non ne hanno una di riferimento, non ci sono percorsi né leggi, tranne in Sardegna dove esiste un accompagnamento fino a 25 anni.
“Antonio ha iniziato un percorso lavorativo e fra qualche mese comincerà a spiccare il volo – conclude Elvira Battista insieme a Giuseppe con un groppo alla gola – Siamo emozionati, lo abbiamo accolto 13 anni fa e vederlo qui è una gioia incontenibile. Oggi cammina con le sue gambe, è un ragazzo sereno, forte di nome e di fatto“.
Il mio progetto è la vita, diceva il giudice Falcione. “Il mio progetto – dice Antonio – è continuare, progredire, migliorare ogni cosa di me. Vorrei raccontare la mia storia per lenire l’impatto tra affido e società. Mi sono iscritto a psicologia, faccio il dj, ho scritto qualche canzone. Voglio raccogliere tutte le mie forze e guardare avanti fiducioso”.
Alle spalle l’immagine sorridente di un uomo che nonostante la sua assenza fisica ha riempito di affetto un teatro intero, il “giudice giusto” Giovanni Falcione, persona speciale che gli stessi condannati hanno riconosciuto tale e che nel corso della serata, pian piano, è diventato per tutti semplicemente “Gianni”.
Nelle mani della sorella Lina Falcione che insieme all’attore Aldo Gioia ha condotto con grande dolcezza questa parte di serata, la pergamena con una poesia scritta dal fratello e la borsa di studio da consegnare ad Antonio: “Questo premio è per coronare il tuo sogno di diventare un bravo psicologo – ha detto a fatica Lina Falcione – Perché sia tu a tendere quella mano che è stata tesa a te. Rappresenti per noi un condensato di forza, coraggio e determinazione, le caratteristiche che aveva Gianni, che ci sta guardando. E siamo certi che lui starà approvando la nostra scelta”.
Ha infine sottolineato tanta profondità l’esibizione di Gianni Aversano, eclettico e bravissimo menestrello napoletano che con musica e parole di valorosa tradizione napoletana ha sigillato una serata per tutti davvero unica e, soprattutto per alcuni, indimenticabile.