Alla ricerca dell’originalità perduta

originalità

Originalità è una splendida parola. Oggi secondo me un po’ abusata dalle strategie di vendita e anche per questo poco usata secondo il suo significato originario. Le mode giovanili, ad esempio, fanno sempre più apparire originali quelli che comprano prodotti commerciali di nuova tendenza (abbigliamento, accessori, oggetti tecnologici) che, si vuole far credere, diventano un tratto distintivo della propria personalità. Perciò, se si vuol essere originali, non si può non possederli.

Così ha inizio una corsa all’acquisto di ciò che rende trandy, o cool se preferite, assecondando quel bisogno di originalità che alberga in ciascuno di noi. L’adolescente poi ricerca smaniosamente il modo per distinguersi e, narcisisticamente, essere considerato un tipo originale. Solo che, ad un certo punto, la propria presunta originalità finisce per conformarsi a quella dei coetanei che pure ostentano con sicurezza la propria originalità esibendo quel paio di jeans sbrindellati, quel giubbotto griffato, l’ultimo modello di smartphone, il più stravagante taglio di capelli.

E dov’è finita la pretesa originalità che doveva contraddistinguerli? Quello che succede è che ciò che doveva renderli speciali li ha invece conformati agli altri e, utilizzando un termine dal sapore sociologico, li ha omologati. La vera originalità non è soltanto esuberante espressione di sé, il suo significato è “pregevole peculiarità e novità” che si lega al concetto di esclusività ed autenticità.

P.P. Pasolini negli anni successivi al boom economico già osservava che la società dei consumi ha innescato un processo di omogeneizzazione che ha praticamente oscurato l’eterogeneità, ovvero l’individualità della persona, quella per la quale schiere di intellettuali illuminati alla Voltaire si sono lungamente battute. La società quindi sembra incoraggiare i giovani verso una pseudo-originalità. Naturalmente si tratta di un fenomeno ampio, che non riguarda solo l’esteriorità ma anche i linguaggi, i comportamenti, i modi di pensare.

Neanche la scuola riesce sempre con successo nel compito di valorizzare l’originalità dei suoi studenti che, forse dietro l’etichetta istituzionale, sono più individui da plasmare che persone da valorizzare secondo le proprie peculiari caratteristiche. Lo dico da insegnante che vuole porsi criticamente verso il proprio mestiere, perché gli obiettivi da raggiungere si pongono come un “dover essere” che potrebbe contrastare con il “voler essere” dello studente. Difatti chi ci garantisce che il modello pedagogico scolastico corrisponda al suo “bisogno di essere”? Si dovrebbe allora maggiormente puntare all’espressione delle singole personalità, delle singole intelligenze, delle singole prestazioni, piuttosto che pretendere un modo – il nostro – di eseguire un compito.

Eppure la moderna pedagogia parla di “pensiero divergente” come di una risorsa fondamentale della nostra mente perché in esso si trovano risposte proprie, frutto di una ricerca introspettiva, che ci fa seguire percorsi diversi, originali. Mentre scrivo mi rendo conto che è più facile dirlo che farlo, vista anche l’esigenza didattica di valutare secondo ben definiti parametri rapportati ad una asettica scala numerica.

Originalità è anche un valore da insegnare: come avrebbe fatto l’essere umano nel corso della sua lunga storia a inventare cose straordinarie come la ruota, il tornio, la carrucola, la scrittura, la radio, la TV, il computer, Internet, i Social Network se non avesse avuto un’idea originale, una predisposizione alla creatività? Scuole, associazioni e istituzioni talvolta attivano progetti in cui gli studenti, assistiti dagli insegnanti, sfornano idee belle e interessanti, contribuendo all’espressione della propria originalità. Anche il gioco dei bambini, quando poco strutturato, lascia spazio a situazioni di gioco originali e perciò sempre diverse (si inventano personaggi, si costruiscono ambienti, si inventano storie, si realizzano oggetti).

In tempo di crisi lavorativa alcuni giovani, piuttosto che rassegnarsi a tempi di vacche magre, si sono rimboccati le maniche e hanno inventato un lavoro inedito, diverso, atipico, insomma originale, carpendo nuove esigenze e nuovi stimoli.

Il confine tra originalità e banalità è sicuramente sottile. Bisognerebbe tutti rifletterci su per riscoprire il senso meraviglioso della parola originalità che, talvolta sminuita e svalutata, si può declinare invece in stile, personalità, individualità, peculiarità, creatività, inventiva, ideazione. E di sicuro l’originalità è essenzialmente un tratto della natura umana che va difeso e preservato a fronte di un continuo rischio di acritica omologazione.

Articolo di Emilia Tanno