La dipendenza da videogame è una nuova malattia. Lo ha stabilito l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) che ha votato all’unanimità, il 27 maggio, nella 72esima assemblea, la revisione della ‘Classification of diseases and related health problems’ (Icd-11). La revisione della classificazione entrerà in vigore il primo gennaio 2022 e contiene le definizioni per oltre 55mila malattie e condizioni patologiche, per uniformare diagnosi e classificazioni in tutto il mondo.
Secondo gli scienziati, la dipendenza dai videogiochi può causare cefalee, ansia, depressione, ma anche attacchi epilettici e deperimento organico. I soggetti a rischio dipendenza sono principalmente gli adolescenti maschi che passano gran parte delle giornate a giocare a videogame. La fascia di età è quella che va dai 12 anni, fino ai 15 – 16. Colpisce soprattutto quei ragazzi che non riescono a superare la fase di pubertà. In genere non fanno sport e sono spaventati dal confronto con i coetanei. E alla base di tutto sembra esserci una enorme rabbia che denota condizioni affettive deficitarie basate su moderne forme di assenza genitoriale.
Quali sono i principali comportamenti a rischio?
Il ‘gaming disorder’ è definito come “una serie di comportamenti persistenti o ricorrenti legati al gioco, sia online che offline, manifestati da un mancato controllo sul gioco; una sempre maggiore priorità data al gioco, al punto che questo diventa più importante delle attività quotidiane e sugli interessi della vita; una continua escalation del gaming nonostante conseguenze negative personali, familiari, sociali, educazionali, occupazionali o in altre aree importanti”. Per diagnosticare la malattia – spiega l’Oms – occorre “che nel comportamento del giocatore compaia una compromissione significativa nelle aree della sfera personale, familiare, sociale, educativa, e professionale”.
Le reazioni dell’industria del gaming.
La decisione dell’Oms non è piaciuta alle Associazioni di categoria dell’industria del gaming. “C’è un dibattito importante tra medici e professionisti sull’azione odierna dell’OMS. La nostra preoccupazione è che si sia arrivati a questa conclusione senza il consenso della comunità accademica – ha dichiarato l’Aesvi – Le conseguenze della decisione assunta sabato potrebbero essere più rilevanti e inattese di quanto si possa immaginare e andare a discapito delle persone veramente bisognose di aiuto. L’industria dei videogiochi incoraggia e supporta un utilizzo sano del videogioco offrendo informazioni e strumenti, come quelli di controllo parentale, che consentono a milioni di persone in tutto il mondo di avere un’esperienza di gioco positiva. Come in tutte le cose buone della vita, la moderazione è importante e trovare un giusto equilibrio è fondamentale per giocare in maniera sicura”.
L’industria dell’intrattenimento interattivo gioca un ruolo fondamentale nello sviluppo di tecnologie emergenti come realtà virtuale e aumentata, intelligenza artificiale e analisi dei big data. Sta contribuendo in modo significativo nel progresso della scienza e della ricerca in molti ambiti, dalla salute mentale alla demenza al cancro, oltre ad essere stata tra i pionieri dell’accessibilità. Allo stesso tempo, il settore ha sviluppato importanti strumenti per la tutela dei videogiocatori, tra cui i sistemi di controllo parentale e diverse iniziative per educare al gioco responsabile, per assicurarsi che tutti possano divertirsi in modo sicuro.
“Crediamo che la decisione dell’OMS non abbia tenuto conto dell’opinione di innumerevoli esperti e accademici, provenienti da istituzioni autorevoli come le università di Oxford, Johns Hopkins, di Stoccolma e di Sydney, che hanno pubblicato articoli e studi indipendenti che mettono in dubbio la validità di questa conclusione”, ha aggiunto Thalita Malagò, Direttore Generale di AESVI. “Il nostro timore è che questa decisione finisca per influenzare delle scelte che sarà poi estremamente difficoltoso rivedere, con un percorso che potrebbe richiedere molti anni. AESVI, all’interno della Federazione europea ISFE, si unisce quindi alle altre associazioni di settore per chiedere che sia ascoltata la voce di un’importante fetta della comunità accademica e scientifica che è contraria all’introduzione di questa voce nella categoria dei disturbi alla salute mentale (ICD 11)”.