Ieri sera il Teatro Savoia di Campobasso ha fatto da cornice alla première dello spettacolo Il Vajont di tutti, un viaggio nell’Italia che vuole rialzarsi, che vuole ricostruire se stessa e il proprio futuro e che per farlo riparte dalle grandi opere civili.
9 agosto 1963. Ore 22:39. Un enorme blocco di terra di 400 metri cade dal Monte Toc, provocando una frana di 270 milioni di metri cubi di roccia, che si riversa nella diga sottostante ad una velocità di 100 km/h. La massa di terra genera due onde gigantesche: la prima raggiunge Casso ed Erto; la seconda, la più terribile, distrugge la cittadina di Longarone. 1.917 vittime, tra cui centinaia di bambini. È il disastro del Vajont.
31 ottobre 2002. Ore 11:32. Una forte scossa di terremoto provoca il crollo di una scuola elementare e spazza via un’intera generazione. 29 bambini e la maestra Margherita in una canzone di Ermal Meta, 27 bambini e la maestra Carmela sotto le macerie della scuola Jovine. È il terremoto di San Giuliano di Puglia.
Una scuola che crolla e una diga che resta indenne mentre la furia della natura non risparmia nessuno. Dagli anni Sessanta ad oggi, le catastrofi naturali hanno fatto da filo conduttore tra il Trentino e la Campania, il Lazio e l’Abruzzo, il Friuli e il Molise. Troppe volte abbiamo sentito frasi come Si indagano le cause del disastro, La tragedia si poteva evitare, Ingenti i danni, riferite ad alcuni degli eventi drammatici che hanno sconvolto il nostro Paese. Le cause più ricorrenti il cambiamento climatico e la responsabilità umana, prima fra tutte la mancata manutenzione.
Il Vajont di tutti è il frutto di un lavoro documentaristico straordinario in cui lo scenario storico del secondo dopoguerra fa da sfondo ai lavori di costruzione della diga. A ricostruire la cronologia degli eventi sono Michele Renzullo nei panni di Carlo Semenza, progettista della diga, ingegnere, industriale, imprenditore, e Selene Demaria in quelli di Tina Merlin, giornalista dell’Unità che ha più volte denunciato il pericolo della diga.
Nel pomeriggio abbiamo incontrato Andrea Ortis, autore, attore e regista friulano.
Il Vajont di tutti è uno spettacolo che ritorna sul palco a pochi giorni di distanza dal 59° anniversario del disastro. Quanto è ancora attuale?
Se penso agli ultimi accadimenti, all’aula magna dell’Università di Cagliari, alla scuola crollata a Palermo, al processo di Rigopiano non ancora iniziato, se vogliamo parlare di questo sistema di insicurezza direi che il Vajont, che racconta sì la tragedia del 9 ottobre 1963, ma che di fatto è un percorso nella vita, nella storia di noi italiani, nelle piccole comunità che affrontano queste tragedie, è ancora molto attuale, purtroppo.
Quanto è importante ricordare?
Questo spettacolo non è soltanto un tentativo di dire quanto è importante ricordare, è qualcosa di più: è un viaggio nell’umanità italiana e nella grande forza che le persone scoprono di avere quando devono scendere a patti con il dolore. Che si tratti di un incidente, di una malattia incurabile, spesso dimentichiamo che siamo più forti di quello che sembriamo.
Perché Il Vajont di tutti?
È paradossale che la parola tutti sia una parola complicata nel nostro Paese, perché tutti non lo siamo mai. Siamo sempre divisi. Però il dolore unisce, le grandi tragedie indignano tutti. In un letto di ospedale, di fronte alla perdita di una persona cara siamo tutti uguali.
Quanto ti ha colpito da vicino?
L’incidente si è verificato al confine con quella che oggi è la provincia di Pordenone, da cui provengo, quindi è nella storia e nella memoria della mia vita. È anche vero che, essendo un viandante, gran parte della mia vita l’ho trascorsa fuori dal Friuli. Spesso pensiamo che le tragedie abbiano una data ma in realtà durano tutta una vita, perché nessuno di restituisce bambini, parenti, amici. Mi appartiene ma mi appartiene di più l’idea di un bene comune.
Il sottotitolo dello spettacolo è Riflessi di speranza.
Uno dei sottofondi di questo spettacolo è il rapporto complicatissimo tra uomo e ambiente: noi siamo ospiti di questo pianeta e invece pensiamo di esserne i padroni e in maniera villana lo sfruttiamo come un limone. Sto dalla parte della fiducia, della speranza: se imparassimo dalla natura, che dopo un incendio si rigenera, impareremmo che l’altro non va sempre visto come un avversario, ma come un’opportunità.
È una colpa, per le vittime sotto le macerie del crollo, non essere usciti di casa dopo due scosse di terremoto molto forti che seguivano uno sciame sismico che durava da mesi, recita la sentenza del Tribunale dell’Aquila riferita al crollo di uno stabile nel centro del capoluogo abruzzese in cui morirono 24 delle 309 vittime del sisma del 2009. Cosa ne pensi?
Letta così mi colpisce e mi lascia indignato, ma prima di commentare e di esprimere un giudizio bisognerebbe approfondire.
Cosa accomuna il terremoto di San Giuliano di Puglia al disastro del Vajont?
Oltre al dolore e alla perdita, la linea comune tra le due tragedie è l’uomo. Ciò che capita nella vita ti segna, bello o brutto che sia. Nella memoria dell’uomo però il brutto sembra avere un peso diverso. Eppure i sopravvissuti, a cui è affidato il duro compito di far sì che la memoria venga ricordata, sono spinti da un grande desiderio di riscatto e sono disposti a raccontare quel momento di violenza che ha strappato via una parte della loro vita affinché possa essere utile agli altri.
Ci viene insegnato che è necessario conoscere la storia per non ripetere gli errori del passato. Eppure le recenti tragedie, basta pensare al crollo del ponte Morandi, all’incidente sulla funivia del Mottarone, al distacco di un seracco sulla Marmolada, all’alluvione nelle Marche, ci dimostrano il contrario.
Raccontiamo il rumore, non raccontiamo il silenzio. Ci stiamo impoverendo, siamo entrati in un loop pessimistico che ci tarpa le ali. Siamo diventati cagnolini randagi che hanno preso calci e pugni, che hanno perso tutta la fiducia nell’altro e non sanno più riconoscere il bello. Dobbiamo tornare a sognare.