Covid Molise. Ripartire dalla medicina del territorio, fare screening e informazione puntuale

Giuseppe Berardi, medico di base di Campobasso, spiega in che modo un serio intervento sui medici generici può togliere pressione agli ospedali e salvare vite. Screening, strumenti adatti e adeguate terapie domiciliari

coronavirus giuseppe berardi campobasso

Lo incontro nel suo studio, aperto (a differenza di tanti antri) anche in questi giorni difficili. E dotato di tutti i marchingegni possibili per sanificare, disinfettare, evitare il contagio. Seduti a debita distanza, con le finestre aperte, facciamo una lunga e sentita conversazione. Durante la quale alle informazioni mediche più secche si intercalano momenti di libere considerazioni più umane che scientifiche.

Lui, Giuseppe Berardi, è come sempre calato nella sua vocazione, quella tipica del medico di base. Scienziato, terapeuta, farmacista, counselor, oss, osa, virologo, geriatra, statistico, prete, funzionario, amico, vicino di casa, boyscout e anche un po’ apprendista stregone.

Tra un sorriso, una smorfia e un’alzata delle orbite al cielo, conversiamo di Covid-19. Della situazione del Molise. Della sofferenza di chi come lui lavora in trincea. E lo fa come ha sempre fatto, rispondendo a tutte le telefonate dopo due, massimo tre squilli. Mi ricorda il mio pediatra: anni ’70, il dottor Scienza (il cognome era già una certezza) che compariva solerte a casa senza alcuna esitazione. Altri tempi.

Il dottor Berardi ha in mano un documento. E’ una bozza di piano territoriale per la tenuta dei contagi che lui ha indicato, suggerito, per diverse vie agli organi preposti. E’ fortemente preoccupato perché la gente, nonostante una pressione mediatica potente e generale, ha ancora troppe lacune di base in merito alla pandemia. Fa errori gravissimi. E lamenta, il dottore, la scarsa attenzione del sistema sanitario alla medicina del territorio, che è invece il luogo in cui il virus deve trovare la prima barriera.

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Il dottor Giusepe Berardi

La vaccinazione è in corso, ma ci sono ancora mesi di contagi davanti a noi – mi spiega – Dobbiamo identificare nel minor tempo possibile il maggior numero di contagiati. Curarli prima e meglio, a domicilio. Se diamo le armi giuste a chi deve fare tutto questo riduciamo ospedalizzazioni e morti. Ma ci sono dei passaggi cruciali da fare“.

E parliamo di screening con tampone antigenico, di evoluzione della malattia e di USCA, di vigile attesa e di numeri.

Lo screening a tappeto con test antigenici è la strada maestra per arginare i contatti. Ma i test vanno utilizzati con criterio, in modalità singola quando dobbiamo verificare un contagio sospetto o l’uscita dalla malattia. In modalità ripetuta a distanza di una settimana in tutte le altre situazioni. Perché un solo prelievo non basta: il virus ha un decorso infettivo che come tutti sappiamo può rivelare falsi negativi. “Se il soggetto è in una prima fase di contagio – mi spiega il dottore –  la carica virale è ancora bassa e il tampone può risultare comunque negativo. Ecco perché il doppio tampone va fatto assolutamente a chi arriva da fuori regione (può portare varianti), ai neo assunti in tutte le strutture di cura e non solo (ospedali, RSA, carceri, scuole,…), sugli operatori sanitari a rischio e negli screening epidemiologici. Ma tutto questo si fa o no?“.

Lo chiede lui a me. Io ribalto la domanda al mio interlocutore. E al mio lettore. Nei casi in cui i Comuni hanno voluto verificare lo stato di salute della popolazione la partecipazione è stata esigua. Nonostante i costi del tampone rispetto ai centri privati fossero esigui (15 euro il doppio esame perché effettuati da personale volontario) tante persone hanno preferito non aderire all’iniziativa. Per non spendere i soldi e perché i Comuni non possono imporli. E forse perché non hanno capito l’importanza dello screening per fermare i decessi. I tamponi antigenici ovviamente costano, ma se ad attivare uno screening è un’istituzione sanitaria, che ha il potere e il compito di imporre strategie preventive, le azioni riescono.

Da medico di famiglia mi illustra poi la realtà della cura domiciliare. Qui entrano in gioco le USCA (Unità speciali di continuità assistenziale), team medici che si occupano di seguire i pazienti Covid nelle loro abitazioni attraverso visite domiciliari e consulti a distanza. In Molise sono sei, ciascuna per un bacino di circa 50mila abitanti (un quadro sintetico della situazione nel recente servizio del TGR Molise). In tutta Italia i medici come Berardi chiedono di potenziarle perché, oltre a non riuscire ad informare ed accompagnare nella prevenzione le persone adeguatamente, non sono dotate di sufficienti strumenti, di quelli utili a limitare il decorso funesto della malattia.

La malattia Covid 19 ha infatti un comportamento infame, caratterizzato da un’evoluzione imprevedibile e repentina che può avere una svolta pericolosa. Può essere come una brutta influenza e passare in una settimana oppure aggravarsi rapidamente e in modo drammatico. Ecco perché è fondamentale che il medico domiciliare ne segua con la massima attenzione il decorso. E che lo possa fare con gli strumenti giusti. Strumenti che sono sostanzialmente tecnologia e farmaci.

Sulla tecnologia sarebbe opportuno dotare le Usca di strumentazione idonea come ecografo ed elettrocardiografo che permettono di cogliere i primissimi segnali di un peggioramento – spiega Berardi – Sul piano farmaci occorre che i medici domiciliari possano inserirli nella terapia al primo segno di allarme, prima che l’infezione assuma forme inesorabili“. E qui si inserisce la questione della ‘vigile attesa‘ quale terapia indicata dall’AIFA (Agenzia italiana del farmaco), contestata dai medici di base in diversi angoli del Paese, soprattutto in Piemonte che però ha aperto un varco molto importante.

idrossiclorochinaCon un ricorso vinto davanti al Tar il Piemonte ha modificato il protocollo per la cura a domicilio dei pazienti Covid, che viene effettuata dalle Usca e dai medici di medicina generale. L’AIFA per i pazienti malati lievi raccomanda paracetamolo/tachipirina e appunto ‘vigile attesa’. Un’attesa che però spesso porta in ospedale, ha sostenuto il gruppo di medici piemontesi, pazienti già in condizioni gravi. Dopo la sentenza a suo favore nella regione sabauda sono stati introdotti per la prima volta in Italia vitamina D, farmaci antinfiammatori non steroidei e idrossiclorochina. Con risultati positivi sui pazienti, secondo i dati riportati in giudizio: riduzione degli accessi agli ospedali e soprattutto meno morti. Si attende ora il passo ulteriore…

Questo dimostra che la medicina territoriale è fondamentale – conclude il medico campobassano – E che spesso chi la esercita fa fatica ad essere ascoltato. Se non ripartiremo dal territorio per ricostruire il sistema sanità non andremo da nessuna parte. Il rischio di non essere curati a dovere non scenderà e al prossimo attacco ci troveremo sprovvisti di difesa. Occorre che la gente sia sempre informata, e informata bene, sul diritto alla salute e sulle scelte che vengono fatte, ma soprattutto su quelle che non vengono fatte. E che i medici di base vengano ascoltati di più, a tutti i livelli. In tanti di noi si sono buttati in questa guerra, spesso a mani nude. E in troppi, lo sappiamo bene, hanno pagato con la vita“.