L’affido familiare, nonostante la legge (legge 4 maggio 1983, n. 184, e successive modificazioni) lo contempli e lo promuova ormai da tempo, è ancora una pratica poco perseguita per aiutare bambini in difficoltà. Perché non è semplice, sebbene spesso ci si accosti con obiettivi nobili ed elevato slancio umano. E richiede percorsi di preparazione e di accompagnamento da parte di esperti: mandare a monte un’operazione di affido significa causare un danno al bambino che si aggiunge a quelli già esistenti.
In tanti si approcciano a questa misura, che la legge persegue con estrema priorità, confondendo l’affido con l’adozione, pensando di ‘appropriarsi’ di un minore come fosse un figlio: atteggiamento quanto mai sbagliato, a partire dal fatto che nessun figlio è di proprietà, neanche quello naturale.
Presupposto dunque che l’adozione è altra cosa e che viaggia su un canale assolutamente distante e parallelo, l’affido familiare consiste nel prendersi carico della serenità di un bambino, aiutandolo a crescere con equilibrio in un ambiente consono alla sua età e alle sue esigenze, senza però staccarlo dai suoi legami familiari (regolati comunque dal giudice che ha disposto il provvedimento). Significa occuparsi di lui e di tutte le sue problematiche, che però sono inevitabilmente connesse alla sua famiglia d’origine che c’è e non può essere eliminata dal panorama degli interventi, ma va gestita insieme alle istituzioni che seguono il caso. Perché nell’affido familiare, così come indica la legge, non si è soli, ma si è parte di una rete di riferimento che deve dare risposte ai bisogni del piccolo nello spettro delle diverse competenze.
Lo sanno bene le comunità che accolgono minori e che realizzano, non senza difficoltà, progetti redatti a misura di ogni piccolo ospite. “Ogni minore porta con sé emozioni, paure, aspirazioni, come chiunque – spiega la dottoressa Elvira Battista, psicologa della comunità Il Piccolo Principe di Limosano (CB) – E deve essere oggetto di un piano educativo e di assistenza completo, curato in ogni aspetto da persone esperte che interagiscono. Tutto questo impegno mira a sostituire nel migliore dei modi la figura genitoriale, che normalmente conosce e segue un bambino a 360 gradi”.
In effetti è la coppia genitoriale il punto di riferimento ideale, il contesto più consono, per un minore in affido, ma non è semplice trovare famiglie pronte a dare questo tipo di accoglienza. E comunque il numero di quelle disponibili (e soprattutto preparate!) è sempre di gran lunga inferiore a quello delle richieste che provengono dai Tribunali per i minorenni. Ecco allora in supporto le comunità, che devono operare secondo gli indirizzi istituzionali e vengono monitorate dalla Procura e dallo stesso Tribunale per i minori. Come l’anello di una lunga catena di interventi rivolti allo stesso obiettivo: il benessere del minore.
Però le comunità dovrebbero essere per legge solo una soluzione temporanea. “Il nostro compito – spiega ancora Elvira Battista della comunità Il Piccolo Principe – è accogliere sì, ma paradossalmente anche fare in modo che i nostri ragazzi vadano via, o perché tornano a casa (in questo caso è stato fatto un buon lavoro sull’intero gruppo d’origine) o perché trovano una famiglia affidataria pronta a curarsi di loro. Ma le due favole raramente si avverano: la prima a causa delle problematiche familiari complesse e irreversibili, la seconda perché chi trova una famiglia aperta trova davvero un grande e raro tesoro”.
Occorre allora aumentare la quota di tesori disponibili e non c’è altra via che sensibilizzare all’affido, avvicinando a questa complessa ma magnifica esperienza quante più famiglie possibile. E soprattutto prepararle, accompagnarle e supportarle costantemente, affinché “l’operazione felicità” condotta da pochi diventi valorosa conquista per l’intera società.