Riflessioni sulla situazione dell’Italia e del Molise in relazione al fenomeno
Ad oggi, sono numerose le ricerche effettuate, gli studi e le statistiche che denunciano il fatto che milioni di donne e di bambine in tutto il mondo sono continuamente vittime di discriminazione, di abusi e di violenze fisiche, psichiche e sessuali. A confermare la diffusione della c.d. “violenza di genere” in Italia sono i dati ISTAT che, associati alla rilevanza mediatica che il fenomeno ha assunto negli ultimi anni, delineano un quadro allarmante che richiede un forte intervento delle istituzioni preposte finalizzato, non solo alla repressione penale dei comportamenti, ma anche alla prevenzione degli stessi.
Da rilevare inoltre che non è possibile oggi discutere del fenomeno “violenza di genere”, e della individuazione di policies orientate alla prevenzione e repressione, senza correlare lo stesso ai cambiamenti culturali in corso nella nostra società dovuti ai crescenti flussi migratori.
Anche il Molise, nonostante si presenti come una regione caratterizzata da piccolissimi centri abitati dove alcuni valori di civile convivenza sembrano ancora resistere, non fa eccezione rispetto al resto d’Italia, attestandosi su una percentuale di diffusione della violenza di genere di poco sotto la media nazionale.
Ma cos’è realmente la violenza di genere?
Tra i numerosi ricercatori che hanno studiato questo fenomeno non c’è un consenso unanime sulla definizione di violenza (D. Iani, 2003), quella più plausibile la offre A.C. Baldry, sostenendo che, «La violenza di genere è caratterizzata da una serie distinta di azioni fisiche, sessuali, di coercizione economica e psicologica che hanno luogo all’interno di una relazione intima attuale o passata. Si tratta di una serie di condotte che comportano nel breve e nel lungo tempo un danno sia di natura fisica sia di tipo psicologico ed esistenziale».
Questo fenomeno per lungo tempo è rimasto taciuto (P. Bordieu, 1999), ed a tratti totalmente ignorato, soprattutto a causa dell’atteggiamento di ritrosia nel denunciare gli abusi subiti, largamente condiviso dalla maggior parte della società. Ciò fino alla diffusione del movimento femminista (P. Romito; C. Adami; 2000), secondo il quale, diversamente dalla secolare impostazione sociale ampiamente diffusa nell’occidente, la dominazione maschile sulle donne è inaccettabile e con essa anche la giustificazione di ogni tipo di violenza perpetrata sia in ambito familiare che extra-familiare.
Dunque, solo recentemente la violenza di genere è diventata un argomento di discussione pubblica (G. Creazzo, 2008) ed è stato interpretato come una delle forme più evidenti di violazione dei diritti umani, causato dallo squilibrio dei rapporti di potere tra i sessi, cosi come dal desiderio di controllo e di possesso da parte del “genere” maschile su quello femminile (I. Biemmi, 2013).
Giova specificare anche che la violenza di genere si manifesta sotto diverse forme ma la più diffusa ad oggi, sembra essere quella che avviene all’interno delle mura domestiche, ovvero in ambito familiare, la c.d. “violenza domestica”.
Le conseguenze di questa specifica forma di violenza sono state oggetto di numerosi studi (R. Campbeli, 2002) in quanto le donne che subiscono violenza da un partner o ex partner e/o violenza sessuale in età adulta e/o minore hanno più probabilità di incorrere in una serie di problemi di salute sia nel breve che nel medio-lungo termine; sia a livello psico-fisico, che a livello relazionale, professionale e sociale (E. G. Krug, 2002).
Le rilevazioni dell’Istituto Nazionale di Statistica riferite al 2014 evidenziano come in Italia il 31,3% delle donne italiane e il 31,5% delle donne immigrate, tra i 16 e 70 anni, hanno subito qualche forma di violenza e ciò dimostra l’incidenza e la diffusione di un fenomeno del quale le masse sembrano, seppur lentamente, acquisire consapevolezza.
Se una donna su tre in Italia è vittima di qualche forma di violenza, significa che le misure preventive e/o repressive messe in campo dalle istituzioni risultano insufficienti. Ciò nonostante abbiamo assistito ad un miglioramento delle statistiche rispetto al 2007, che, escluso lo stupro, mettono in luce una forte diminuzione della violenza psicologica (dal 42% nel 2007 al 26% di oggi), così come di quella fisica (dal 13% all’11%).
Entrando nel nostro “microcosmo”, poco più rosea rispetto alla media nazionale risulta essere la posizione del Molise che vede il 25,9% di donne dai 16 ai 70 anni vittime di violenza fisica o sessuale.
La Regione si è dotata nel 2013 di una legge ad hoc, la n. 15 del 10 Ottobre 2013, finalizzata alla prevenzione del fenomeno che fissa con ampio respiro e in via generale i principi sui quali la lotta alla violenza di genere deve essere condotta. Alle linee guida per la costituzione di centri antiviolenza e le c.d. “Dimore dei diritti”, si affiancano iniziative informative, di inserimento lavorativo per le vittime di violenza, si tracciano le modalità di coordinamento.
Nuova linfa alla suddetta legge è arrivata nelle ultime settimane con l’approvazione del “Piano Triennale di prevenzione e contrasto alla violenza di genere” approntato nell’ambito dall’art. 13 che rappresenta il primo vero intervento di rilievo nella Regione Molise finalizzato a promuovere e sostenere le attività di prevenzione, di sostegno e di tutela alle vittime della violenza, nonché di sensibilizzazione, informazione e costruzione di percorsi di crescita culturale e solidale.
Per il raggiungimento dei suddetti obiettivi, il Piano prevede diversi interventi, tra cui la costituzione di tre Centri Antiviolenza (Campobasso, Isernia e Termoli), la realizzazione di una Casa Rifugio sul territorio regionale, l’attivazione dei Codici Rosa presso i Pronto Soccorso degli Ospedali di Campobasso, Isernia e Termoli.
Fondamentali saranno altresì da un lato la costituzione dell’Osservatorio Regionale a cui è demandato il compito di raccogliere i dati qualitativi e quantitativi sul fenomeno ed elaborarli per estrarne indicazioni operative per la definizione degli interventi da svilupparsi a livello locale; dall’altro la costituzione della Rete antiviolenza, di cui fanno parte rappresentanti di enti pubblici e privati che a vario titolo si occupano della problematica in parola e che partecipano al Tavolo di coordinamento regionale istituito presso la Giunta Regionale.
Il recente Piano, nonostante una dotazione finanziaria di soli 188.000 €, rappresenta comunque, almeno a livello di intenti, un grande passo in avanti nelle politiche di prevenzione ed attenuazione delle conseguenze derivanti dalla violenza di genere, colmando un vuoto normativo di non secondaria importanza. Da rilevare anche come nel Piano manchi qualsiasi riferimento diretto al collegamento violenza di genere-immigrazione, probabilmente per via del fatto che misure idonee verranno adottate nel dettaglio degli specifici interventi previsti.
Ed infatti, come precedentemente anticipato, non è pensabile approntare oggi delle policies efficaci in materia che non tengano conto dell’insistente fenomeno migratorio che interessa l’Italia da qualche decennio e che sta “multiculturalizzando” grossi pezzi della nostra società.
“Il telefono, a cui le italiane ricorrono senza problemi è difficilmente utilizzabile per le donne che arrivano da altri paesi” spiega Linda Laura Sabbadini, direttore del “Dipartimento per le statistiche sociali ed ambientali dell’Istat”, che insiste da una parte sulla necessità di assoluta protezione di queste donne, dall’altra, sull’obbligo di abbattere gli stereotipi delle culture a cui appartengono che spesso le considerano socialmente, pubblicamente e legalmente inferiori, pertanto passibili di violenze domestiche per motivi religiosi o culturali.
In quest’ottica, appare cogente orientare le policies pubbliche, atte a prevenire i comportamenti violenti sulle donne, alla multiculturalità, predisponendo strumenti capaci di dialogare, oltre che in diverse lingue, anche in diversi stili di vita, lanciando un messaggio di accoglienza idoneo a spiegare i suoi effetti a trecentosessanta gradi nella società.
Non di secondaria importanza, nell’ottica della prevenzione del fenomeno, è il ruolo rivestito dai mass media nel trattare l’argomento in questione.
Storicamente i media, in concomitanza con le altre agenzie di socializzazione, influenzano il processo di costruzione dell’identità di genere fornendo modelli femminili e maschili a cui ispirarsi (S. Capecchi, 2015) capaci di influenzare l’opinione pubblica fino a determinarne i comportamenti. Non a caso A. Pana e S. Lesta, affermano che la violenza di genere è considerata “normale” in quanto giustificata dalla società e dai media, operando un capovolgimento di ruoli in cui spesso sono le vittime ad essere accusate e stigmatizzate piuttosto che i perpetratori.
Per quel che riguarda il fenomeno migratorio, i mezzi di informazione italiani, sembrano mostrare una tendenza alla svalutazione e alla interiorizzazione del mondo degli immigrati, spesso ridicolizzato ed erotizzato (N. Mai, 2006), rispetto invece ad un atteggiamento che dovrebbe essere orientato verso la reale comprensione del fenomeno e sul dibattito inerente le policies necessarie all’integrazione. Così, la conseguenza del collegamento “violenza di genere” – “immigrazione” in funzione mediatica, fa emergere un quadro per nulla soddisfacente, se non addirittura controproducente, idoneo a diffondere nell’opinione pubblica un senso di indifferenza, se non proprio di giustificazione, verso atti di violenza di genere perpetrati dagli uomini verso le donne. Di converso il ruolo dei mezzi di informazione potrebbe essere un valido strumento di prevenzione, e spesso lo è, capace di influenzare le masse verso il ripudio di ogni forma di violenza incrementando altresì il senso di riprovevolezza verso i comportamenti che rientrano nell’alveo del fenomeno. I media possono agire da un lato tramite una costante ed incisiva informazione incentrata su fatti di cronaca che hanno ad oggetto episodi di violenza di genere, dall’altro con campagne informative ad hoc prodotte dai soggetti istituzionali competenti e divulgate con ogni mezzo di informazione.
Ad accentuare il ritardo dell’Italia nell’affrontare la problematica in parola anche il “Rapporto Ombra – Lavori in Corsa: 30 anni CEDAW”, che già nel 2011, per l’Italia, tracciava un triste bilancio sulle politiche contro la discriminazione delle donne.
Così viene rilevato l’immobilismo normativo dei governi succedutisi che, associato alla crisi economica ed ai conseguenti tagli di bilancio, escludendo l’approvazione di qualche legge o altra estemporanea iniziativa, non ha permesso di abbattere stereotipi, svantaggi, discriminazioni nei confronti delle donne in Italia.
Ancora nel 2014 si denunciava la mancanza di una legge organica nazionale, oggi non ancora varata, dovendosi registrare solo limitati interventi in materia giuslavoristica su facilitazioni alla mobilità interna alla P.A. e congedo per lavoratrici vittime di violenza di genere; nonché nella riforma dell’istruzione si prevede come attività scolastica l’educazione alla parità tra i sessi, la prevenzione della violenza di genere e di tutte le discriminazioni, al fine di informare e di sensibilizzare gli studenti, i docenti e i genitori.
In attesa degli effetti che produrrà la legge approvata dalla Regione Molise e di una legge nazionale di riordino complessivo del sistema, oggi più che mai si auspica una proficua collaborazione, in ottica multiculturale, di mass media e istituzioni affinché si eviti l’accentuazione della disparità di potere tra uomini e donne consapevoli che l’unica via che porterà ad un mutamento radicale dei rapporti tra i generi, sarà le decostruzione dei presupposti di mascolinità e femminilità su cui si fonda la realtà in cui viviamo (S. Ciccone, 2009).