“Fabrizio è stato semplicemente un anarchico, perché l’anarchia, prima ancora che un’appartenenza politica, è un modo di essere. Basta scorrere il canzoniere di De Andrè: donne, prostitute, sucidi, ultimi, zingari. Come nel Vangelo: “I pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel Regno di Dio”. La scelta di Fabrizio non accetta etichette, non è mai ideologia. Chi sceglie un’ideologia può anche sbagliare; chi sceglie i poveracci, i senza voce, i fragili, non sbaglia mai. “Essere anarchico” non significa seguire un catechismo o un decalogo, tanto meno un dogma. È uno stato d’animo, una categoria dello spirito. E Faber aveva lo spirito anarchico, lo spirito libertario”. Queste parole sono di Don Andrea Gallo, il prete di strada, scomparso nel 2013, che aveva conosciuto Fabrizio De Andrè da sempre. Da quando cioè ancora non era un autore affermato. Nel periodo in cui la sera, quando a Genova chiudeva tutto, anche i casini, si recava con gli amici al Ragno verde, un locale, giù al porto. È qui che scoprì il fascino dei carruggi. Genova era per Faber il punto di osservazione per raccontare con le canzoni l’umanità dolente, ispirandosi a grandi maestri come Georges Brassens, interpretando brani come Le Gorille, Mourir pour des idées, Marche nuptiale, Dans l’eau de la claire fontaine.
Due cantautori uniti dalla convinzione che la ragionevolezza e la convivenza sociale autentica si trovano di più in quella parte umiliata ed emarginata della società che non tra i potenti. Perché non esistono poteri buoni. E così anche l’osannata democrazia può rivelare il suo volto dispotico: le maggioranze hanno la cattiva abitudine di guardarsi alle spalle e contarsi, arrogandosi il diritto di vessare e umiliare le minoranze. Costringendo le persone all’emarginazione soltanto perché vogliono rimanere se stesse. È il caso delle tante princesa o bocca di rosa. Le leggi sono scritte, infatti, in ogni tempo e in ogni luogo, sempre da un gruppo che è al potere, che spesso non tiene conto di quelle fonti non sicure di consenso, di quel mondo che qualche tempo fa si definiva “sottoproletariato”. De Andrè sosteneva che i privilegi non sono altro che categorie mentali dell’uomo, e che fosse necessario confrontarsi con i propri simili per smaschera il potere (spesso invisibile) e la sua connivenza con la società borghese e i benpensanti. Mettendo continuamente in discussione la divisione netta fra errore e virtù.
Lontano dalla società dei consumi e dei media, Faber preferiva sviluppare la solitudine volontaria. In fin dei conti l’uomo solitario non fa paura a differenza dell’uomo organizzato. Cosa rimane di Fabrizio De Andrè, di quell’uomo senza legge e senza gregge? Il suo punto di vista sul mondo. Una prospettiva laica contro l’ipocrisia. Un artista che ha raccontato l’amore, invitando tutti a non abusare della posizione privilegiata di chi sa di essere amato, elogiando chi ha il coraggio di amare anche a costo di perdere il senno.
Fabrizio De Andrè ci ha lasciato 16 album, circa 200 canzoni. Su di lui sono stati scritti libri, recensioni, articoli. Oggi sono trascorsi 20 anni della sua scomparsa. E ci chiediamo cosa avrebbe pensato di quei cantanti che in questa giornata riproporranno i suoi brani: irraggiungibili e inimitabili. Ci chiediamo cosa avrebbe scritto sulla generazione Xennial o sulla generazione Z. E di come avrebbe reagito all’indifferenza dell’Unione europea nei confronti di quelle persone smarrite in mezzo al mare. Persone di un altro colore ma appartenenti alla nostra stessa umanità.