Nel discutere con Virginia Perrella di comunicazione mi addentro in un tema a me particolarmente caro. La incontro per parlare di autismo perché lei è tecnico della riabilitazione psichiatrica, tutor DSA, assistente alla comunicazione e terapista ABA.
Entrambe in effetti lavoriamo nell’ambito della comunicazione. Io per informare, diffondere, sensibilizzare, conoscere e far conoscere. Lei per aiutare tanti bambini a sbocciare, a tirare fuori il loro meglio, al centro Hanami di Ripalimosani (CB) in cui lavora come terapista.
Per comunicazione intendiamo lo scambio di messaggi attraverso un codice da una persona all’altra, da un luogo ad un altro. La comunicazione viaggia su tre livelli: verbale, para verbale e non verbale. E’ efficace se questi 3 livelli sono tra di loro connessi ed equilibrati. E per questo è essenziale nella vita delle persone. Ma cosa succede se per svariati motivi i livelli comunicativi non sono in equilibrio? E soprattutto come si può affrontare il problema quando a non riuscire a comunicare è un bambino autistico?
Dottoressa Perrella riprendiamo dal punto cruciale. Che cosa succede se i livelli della comunicazione non sono in equilibrio, ossia se non siamo in grado di comunicare?
Sicuramente e certamente, lo dicono i dati scientifici, il comportamento osservabile è l’isolamento, unito alla frustrazione che porterebbero a comportamenti non facilmente accettabili. L’individuo cerca dunque strategie comunicative alternative e questo è ciò che accade nei bambini con la sindrome dello spettro autistico, sindrome caratterizzata anche per il grave deficit comunicativo. I bambini che non riescono attraverso la più comune comunicazione a far arrivare il proprio bisogno, il proprio desiderio, la propria necessità trovano, in maniera del tutto autonoma, metodi e strategie per comunicare. Spesso gli adulti non riescono ad interpretare immediatamente la richiesta. Il bambino tenta, riprova e tenta di nuovo, ma non vede soddisfatto il proprio bisogno comunicativo. Così nascono comportamenti non finalizzati e non funzionali all’obiettivo. Come gesti, vocalizzi, posture del corpo inappropriate: urla, oggetti scaraventati a terra, morsi, pianto. Comportamenti identificati come problema.
Allora come comunicare con loro? Come aiutarli ad esprimere ciò che desiderano, ciò che vogliono?
Utilizzando dei canali comunicativi alternativi e tenendo bene a mente alcuni consigli. Loro sentono, eh sì che sentono! A volte i rumori e i suoni sono percepiti in maniera più amplificata, quindi non dobbiamo urlare, anche perché pur volendo ricevere una risposta loro non posso darla. Quindi chiediamo piano, utilizziamo i gesti, la mimica e se vogliamo chiede di svolgere un’attività allora dobbiamo armarci di pazienza e mostrare, anziché chiedere. Occorre rispettare i loro tempi, premiare e rinforzare sempre il loro impegno. E poi i bambini vanno osservati, per capire qual è il canale comunicativo più consono da scegliere.
Qui però entriamo in un discorso tecnico molto specifico. Come si fa a capire quale canale utilizzare? Come fate voi esperti a capire qual è il modo migliore per entrare in contatto con il loro mondo? Un mondo che sappiamo essere così diverso da un individuo all’altro, perché l’autismo è ancora un mare infinito di cose da scoprire. Non è così?
E’ così. E per capire quali strategie utilizzare per creare una comunicazione che funzioni ci appoggiamo agli studi, alla Comunicazione Aumentativa Alternativa. La CAA ha lo scopo di sviluppare le abilità comunicative e si applica a tutte le persone che hanno difficoltà ad utilizzare i più comuni canali, soprattutto il linguaggio orale e la scrittura (ASHA, 2005). Utilizza tutte le competenze: il linguaggio verbale esistente, i vocalizzi, i gesti, i segni o strumenti tecnologici. Non sostituisce il parlato ma tende a creare comunicazione attraverso tecniche, strategie e tecnologie che coinvolgono la persona e tutto il suo ambiente.
Con i bimbi autistici utilizzate questa tecnica?
Sì, con i bambini autistici si distinguono due tipi di CAA: con o senza supporto. La CAA senza supporto non fa uso di strumenti esterni ed utilizza in maniera più funzionale i gesti e il linguaggio del corpo; la CAA con supporto permette al bambino di comunicare ricorrendo a strumenti esterni che possono essere a bassa, media o alta tecnologia. La CAA è un potente mezzo per l’inclusione, riduce la frustrazione e il conseguente isolamento sociale, migliora la vita e riduce l’emissione di comportamenti problema perché il bambino può esprimere e comunicare i propri bisogni e volontà.
Le piace tanto il suo lavoro. Si capisce a pelle che è come se lei avesse realizzato un sogno. O sbaglio?
Non sbaglia. E’ così. Pensi che a casa di mia nonna c’era un quadro, rappresentava un bambino triste e che piangeva. Da bambina ogni volta che entravo in casa lo fissavo e piangevo così tanto che i miei nonni dovettero toglierlo. Il quadro era stato donato da mio zio a sua volta ricevuto come regalo dalla sua fidanzata. Prima di morire, dopo una lunga malattia, disse a mia nonna che il quadro doveva essere mio. Oggi è appeso a casa mia e oggi mi ricorda la mia passione ma anche la sua mancanza. Tutto questo solo per dire che in qualche modo la persona che decidiamo di essere è già in noi: bisogna avere coraggio e tenacia per scoprirla. Da piccola ero parecchio empatica, sentivo e percepivo gli stati d’animo degli altri, mi affascinavano l’animo e il comportamento altrui. E questo mi portava a cercare di aiutare chi mi stava intorno. Un’esigenza che ho soddisfatto con la scelta universitaria.
Spesso però essere altruisti, empatici e pronti all’aiuto non basta per lavorare accanto al disagio, alla sofferenza, all’handicap. In che modo lei ha compreso quale strada operativa scegliere?
L’ho capito sul campo. Dopo la laurea ho lavorato con famiglie che versavano in condizioni di disagio sociale ed economico, ma sentivo che non era quella la strada giusta, anche se mi faceva stare bene. Successivamente ho fatto esperienza con i disturbi specifici dell’apprendimento e con bambini e adulti non vedenti. Poi un bambino con diagnosi dello spettro autistico mi ha aperto un mondo che ho voluto approfondire. Ho seguito fuori regione un corso di formazione per tecnico comportamentale nel trattamento dell’autismo. Poi, nonostante la paura del nuovo percorso professionale, mi sono messa in gioco. E grazie alla proposta di una collega universitaria ho iniziato a collaborare con lei e ad entrare sempre più in un lavoro che mi appassiona sempre di più. E che mi pone ogni giorno nuove sfide e nuovi ostacoli da superare. Mi piace. Mi piace davvero. C’è tanto da lavorare in questa strada, ma oggi so che è quella che voglio percorrere.