Nella traduzione dall’inglese all’italiano significa ‘ritirarsi’. Riferito alla scuola si riferisce all’abbandono scolastico, in senso sociale riporta al concetto di emarginazione. E’ il drop out, che in psicologia viene utilizzato quando una terapia viene interrotta prematuramente. Così nell’autismo: si parla di drop out quando la terapia di un bambino viene sospesa precocemente. E’ un fenomeno ben presente nel panorama generale, oltre che fortemente legato al concetto di parent training, cioè la formazione dei genitori, l’accompagnamento delle famiglie accanto al percorso dei loro figli. Perché nell’età evolutiva il ruolo nel genitore sulla riuscita del percorso terapeutico è molto, molto importante.
La relazione tra drop out e BPT (Behavioral Parent Training) è il cuore di un contributo scientifico recentemente pubblicato sui Quaderni di Psicoterapia Cognitiva (F.Angeli), un lavoro a più mani dal titolo “Fattori predittivi del drop-out: accettabilità e impegno nel parent training”. Non solo i genitori rivestono un ruolo importante nella gestione del disturbo del figlio, ma il loro comportamento può rappresentare un fattore di mantenimento del disturbo e interferire con la terapia stessa. L’abstract spiega quanto le strategie con i genitori e la formazione a loro favore possano determinare la riuscita degli interventi sui figli e soprattutto la stabilità dei risultati nel tempo.
In quest’ottica si è evoluto il rapporto tra terapeuta e famiglie, che è sempre meno distante e sempre più fondato sulla fattiva collaborazione, sulla comprensione reciproca, sul confronto e su un dialogo continuo ed armonico, assolutamente benefico anche e soprattutto per il bambino.
“Gradualmente – leggiamo nell’abstract – il terapeuta ha assunto il ruolo di ‘coach’ della funzione genitoriale, un esperto nei problemi del bambino che deve però possedere buone capacità relazionali, comunicative e di mediazione con le famiglie (Webster-Stratton ed Herbert, 1994). Il terapeuta osserva il modo in cui il genitore entra nella relazione problematica con il figlio e promuove flessibilità, accettazione, abilità di negoziare i conflitti, capacità di riconoscere, leggere e interpretare i comportamenti del figlio alla luce dei suoi bisogni“.
Ecco allora che i genitori non sono più persone cui impartire indicazioni, cui fornire istruzioni. Ma diventano ‘agenti di cambiamento’, modificando i comportamenti del bambino in termini positivi. “In questo modo, fin dall’inizio, si chiarisce che le idee, le emozioni e i vissuti di ogni componente del sistema familiare sono importanti e possono anzi risultare determinanti nella comprensione del disagio, oltre che nell’offrire nuove possibilità di crescita al piccolo paziente”.
Emergono dall’indagine i fattori che determinano maggiormente il drop out nelle terapie sull’autismo. I primi sono legati a variabili demografiche: svantaggio socioeconomico, essere un genitore single, basso reddito. Poi ci sono le variabili parentali, come il grado di gravità del disturbo, l’elevato stress materno, la conflittualità familiare. Quindi seguono tutti i fattori legati agli ostacoli che impediscono una continuità nella partecipazione (lavoro, assenza di rete di appoggio familiare o di trasporti, difficoltà di pianificazione) e favoriscono quindi demotivazione e sospensione precoce del percorso.
Affinché un programma sia efficace occorre invece un reale coinvolgimento dei genitori nel processo di cambiamento dei loro figli. Qui intervengono abilità e competenza del terapeuta. O meglio, dell’équipe terapeutica, Perché se la relazione è la carta vincente per aiutare le famiglie a convivere con l’autismo, la stessa carta va utilizzata all’interno del gruppo di esperti che ha in mano il caso.
Attraverso un approfondito esame di tecniche, strumenti e strategie di BPT, il contributo scientifico giunge all’identificazione di alcuni approcci risultati più efficaci nel coinvolgimento delle famiglie. Brevi discussioni di coinvolgimento nelle prime sessioni di trattamento, approcci di coinvolgimento dei sistemi familiari, incremento al supporto familiare e interviste motivazionali. “Adottare un approccio personalizzato e collaborativo per affrontare le sfide legate all’impegno delle famiglie – leggiamo nelle conclusioni – può ridurre l’ambivalenza delle famiglie nei confronti del trattamento (Miller e Rollnick, 2002) e trasmettere comprensione e rispetto per le immense energie spese per continuare la terapia, rafforzando l’alleanza terapeuta-famiglia“.